IV

Le correzioni dell’edizione napoletana

Dopo avere analizzato i canti scritti nell’ultimo periodo della vita del Leopardi, crediamo opportuno aggiungere un capitolo sulle correzioni apportate nell’edizione Starita 1835 ai canti composti precedentemente al Pensiero dominante.

Questo esame ci farà vedere come il Leopardi non fosse cristallizzato e incapace di ritornare sulle posizioni passate e come anzi sapesse riprendere i canti già composti e ravvivarli secondo il suo nuovo gusto, senza falsarli grossolanamente e senza sentirsi, d’altra parte, legato dal già fatto, dall’espressione passata. Non potremo tanto ricavarne esattamente i caratteri positivi del nuovo gusto, quanto vederne l’estrema sicurezza e felicità, la sua qualità per nulla senile ed arida. Perché il poeta cerca di rimettersi entro l’ispirazione da cui sorse il canto che corregge e non vuole, ad esempio, portare l’accento eroico vigoroso della sua nuova poesia nel clima armonico degli idilli. Ed è proprio questa ampia comprensione, questa possibilità di portare a perfezione motivi ormai fuori della sua piú diretta ispirazione, che ci mostra la grande complessità e maturità dell’ultimo Leopardi. Stonature che per molti anni non era riuscito a correggere o che non erano state percepite come tali, ora sono eliminate, trasformate dal finissimo senso musicale del poeta.

In chiarissima dipendenza dal nuovo gusto leopardiano, è una lunga serie di correzioni piú apparentemente ortografiche, ma che, viste come misura estesa a tutti i canti, indicano un senso robusto delle parole e del loro suono: tutte le scempie nei casi obliqui degli articoli sono raddoppiate (della per de la, alle per a le ecc.), certamente per evitare una sonorità languida ed affettata; cosí pure si rassicurano sempre le parole troppo ricercate e cascanti, nel loro suono piú virile: nodrici in nutrici, scelerato in scellerato, lagrimoso in lacrimoso ecc. D’altra parte è regola generale l’integramento dove la musica del verso lo richiede: che ’l = che il, or se’ = or sei ecc. Queste misure generali di correzione, alle quali se ne potrebbero aggiungere altre dello stesso tipo, denotano appunto un senso piú robusto in confronto alle edizioni precedenti.

Nell’esame analitico seguirò piú o meno l’ordine cronologico, raggruppando insieme quelle poesie che hanno tra loro maggiore vicinanza e nelle quali quindi il correttore lavorò con lo stesso spirito.

Il Primo amore. In questo, come in molti altri canti, la concezione iniziale era già di per sé poco adatta ad essere ripresa in un momento di piú concentrata liricità: è un canto assai attaccato a reminiscenze letterarie, senza una vera tendenza alla quale il poeta si potesse rifare correggendo. Perciò vi sono solo da notare delle attenuazioni come «fragorio» in «romorio» (v. 54), una intelligentissima sostituzione di «cielo» a «fato» (v. 48) per rendere il canto piú giovanile, in un’atmosfera piú cristiana e petrarchesca, e semmai, come piú notevole, la correzione dei versi 88-90, in cui si stabilí una piú esatta coerenza di immagine:

che la illibata, la candida imago

contaminar temea sculta nel seno,

come per soffio tersa onda di lago.

che la illibata, la candida imago

turbare egli temea pinta nel seno,

come all’aure si turba onda di lago.

«Pinta» è assai piú coerente ad «imago» di quel che non lo fosse «sculta»; «turbare» usato in tutt’e due i termini di paragone li unisce di piú ed accentua nella prima parte un senso piú leggero, piú consono all’immagine di un lago increspato dal vento. Oltre che l’avere introdotto il verbo nel terzo verso ne ha allargato immensamente l’effetto.

Le canzoni patriottiche. In generale per seguire l’indole di queste canzoni, il Leopardi cercò di accentuarne il carattere solenne e magnanimo, aggiungendo qualche esclamativo che servisse a dare slancio a frasi piú impetuose (v. 67 All’Italia), o abbreviando delle mosse diluite e fiacche (vv. 188-189 Sopra il monumento), ma si può dire subito che il poeta non si dové trovare a suo agio fra tanta retorica ed in complessi (specialmente il secondo) disorganici ed incerti. Nella prima canzone, oltre alcune correzioni piú particolari ma sempre finissimi (ad es. il semplice spostamento di: «La tomba vostra è un’ara» in «la vostra tomba è un’ara» al v. 125), poté apportare un cambiamento ai vv. 21-23 che fece della seconda strofa una cosa del tutto nuova, e che è certo la migliore di tutte le correzioni fatte alla canzone dal ’18 al ’35. Prima aveva introdotto accanto all’Italia, figurata come donna piangente, per la sua smania giovanile di mettersi in primo piano melodrammaticamente, anche se stesso piangente:

Se fosser gli occhi miei due fonti vive,

non potrei pianger tanto

ch’adeguassi il tuo danno e men lo scorno;

adesso invece rivede le cose dall’alto, elimina se stesso ed insiste sulla personificazione dell’Italia:

Se fosser gli occhi tuoi due fonti vive,

mai non potrebbe il pianto

adeguarsi al tuo danno ed allo scorno.

Per la seconda, tanto piú fiacca e vuotamente eloquente della prima, le correzioni si limitano per lo piú ad eliminare durezze, oscurità di senso, a rattoppare insomma delle falle piú grosse ed evidenti. Cosí un orribile «Oh di costei che tanta verga strinse» (v. 176) fu corretto in: «Oh di costei ch’ogni altra gloria vinse», cosí ai vv. 91-98 si rese compatta una frase slegata e si districò l’oscurità della fine.

Una correzione assai caratteristica per il nuovo gusto è quella dei versi 146-148:

Allor, quando traean l’ultime pene,

membravan questa disiata madre

dicendo: [...]

cambiati in:

Allor, quando traean l’ultime pene,

membrando questa desiata madre,

diceano: [...]

Evidentemente il Leopardi maturo sentí una stonatura in quel blando gerundio finale ed intuí, secondo il suo modo di procedere nei nuovi canti, la funzione di allargamento musicale cui avrebbe adempiuto il gerundio se portato nel secondo verso, prima del verbo finito, conclusivo e deciso.

I primi idilli. Se nelle canzoni patriottiche il poeta si era trovato di fronte a poesie retoriche e piene di punti cadenti da rialzare, negli idilli aveva innanzi dei componimenti iniziati con una ispirazione sincera e con tendenze fortemente musicali: basti ricordare i brani famosi del Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica del ’18 e l’altro brano del ’19: Principio del mondo (che io avrei voluto porre in musica, non potendo la poesia esprimere queste cose ecc.). Nella sua piena maturità il poeta sapeva che, ciò che al giovane era sembrato ineffabile, era invece esprimibile poeticamente e, ritornando su quelle prime poesie, irrobustiva in esse quella musicalità che aveva nella prima concezione tanto ardentemente ricercata.

Alla luna. Ritornando su quella breve lirica, il cui centro è nello stupore della coincidenza (pianto un anno fa, pianto adesso), che permette un lamento consolato, non affannoso né tragico, il poeta dei nuovi canti dové sentire fortemente lo stacco fra la sua attuale posizione e quel momento di catarsi completa nel ricordo. Quando, subito dopo i grandi idilli, aveva dato una nuova edizione dei suoi canti (quella fiorentina del ’31), egli non aveva fatto nessuna correzione fondamentale al breve idillio quasi approvandolo, completamente. Ora invece, piú che fermarsi in correzioni particolari (ottima quella del verso 3 «venia carco d’angoscia a rimirarti» mutato in «io venia pien d’angoscia a rimirarti»), sente il bisogno di modificare la parte che piú doveva spiacergli per la sua nuova posizione e che soprattutto correva troppo sbrigativamente. La prima lezione dei versi finali era:

[...] Oh come grato occorre

il sovvenir de le passate cose,

ancor che triste e ancor che il pianto duri!

Era una mossa di immediata soddisfazione quasi il risoluto superamento di un lungo problema sentimentale che al Leopardi maturo doveva sembrare un’imperdonabile ingenuità, anche poco in armonia col carattere dell’idillio. Perciò corresse il troppo lezioso «sovvenir» in «rimembrar», eliminò al terzo verso la inutile durezza del secondo «ancor che», e sostituí a «pianto» una parola piú complessa ed indicante tutta una lunga situazione dolorosa: «affanno». E aggiunse i due versi centrali che modificano l’anima di tutta la poesia e soprattutto allargano la musica del finale: non rappresentano infatti solo una parentesi di precisazione logica, ma preparano con uno slargamento di pausa, il corso diritto dei due versi finali.

L’infinito. Sembra che il poeta non avesse da mutar nulla in una poesia realizzata cosí di colpo e cosí poco elaborata posteriormente. Solo ai vv. 4-5 il suo nuovo gusto notò un punto cadente, piú limitato del resto del componimento. Inizialmente si leggeva: Infinito spazio; poco dopo diventa: interminato spazio, che è già un forte miglioramento, ma solo nel ’35 si raggiunge la lezione definitiva: interminati spazi. Il poeta prima aveva certo pensato ad un unico spazio, ad una continuità simultanea dello spazio diversa dalla continuità successiva dei silenzi. Poi si dovette accorgere che dire «interminato spazio» era limitare, materializzare l’impressione di vastità senza confini in cui l’anima si sprofonda sempre piú con sempre nuovo sgomento d’infinito. Allora sostituí il plurale al singolare ottenendo anche l’effetto di accordare «interminati spazi» con «sovrumani silenzi». Sempre per questo affinato senso dell’infinito, il titolo dell’idillio fu scritto in lettere minuscole: infinito, che accentua il carattere di sensazione romantica invece di Infinito, che è piú massiccio, piú trascendente, piú oggetto.

La sera del dí di festa. In nessun’altra poesia come in questa si può valutare la finezza artistica cui il Leopardi era giunto in questi ultimi anni. Se egli si fosse davvero isterilito quanto a facoltà fantastica, non avrebbe certo potuto riprendere con tanta freschezza delle poesie passate e migliorarle, come fa qui, pur non falsando la loro ispirazione primitiva. Nella Sera del dí di festa c’erano due motivi essenziali: quello della musica, della serenità, che non era riuscito a prevalere, e quello del dolore. Il nuovo Leopardi sviluppa il primo e lo fa dominare sul secondo. In seguito alle correzioni del ’35 la Sera del dí di festa raggiunse dei punti di serenità assoluta. Tutte le correzioni di questa poesia sono buone, a cominciare da quella del titolo (La sera del giorno festivo) che diventò tanto piú sostenuto e meno prosastico. Sono tutte correzioni che alzano il tono della poesia in una sfera di tranquillità, in una musica che prima non aveva: cosí il nobile «odo» per «sento» al v. 25, il leggero «se non di» invece del duro «fuor che» al v. 16, «non sai né pensi» per «non pensi o stimi» al v. 9, «e piú di lor non si ragiona» invece del bruttissimo «e piú di lor non si favella» al v. 39, «e se ne porta ogni umano accidente» al posto di «e si travolge», fino al sottile cambiamento di un «già» temporale nel piú aperto «pur» al v. 46.

Ma le correzioni piú notevoli e piú sconvolgenti, sono quelle dei versi 1-4, 11-13, 20-21. In questi ultimi versi la prima lezione era:

[...] non io certo giammai

ti ricorro al pensiero. intanto io chieggio

quanto a viver mi resti, [...]

Il primo verso era poco deciso malgrado i due avverbi: certo giammai, e nel secondo era troppo vicino ad un andamento da prosa. Corresse perciò: «non io, non già ch’io speri», rinforzando la negazione.

Ai versi 11-13 il mutamento è anche piú radicale, piú direttamente improntato all’intento di accentuare il motivo rasserenatore del canto. Prima erano dei cenni superficiali di autobiografismo elegiaco:

E bene sta che amor da quando io nacqui

non ebbi né sperai né merto. il cielo

io qui m’affaccio a salutare, il cielo

che mi fece all’affanno. [...]

Nell’ultima lezione si elimina questo tono elegiaco, la ripetizione incalzante: «il cielo, il cielo», la disorganicità delle tre negazioni consecutive, e si guadagna il contrasto doloroso del «Tu dormi: io questo ciel [...]».

La correzione dell’inizio è poi forse la piú bella di tutte le correzioni fatte dal Leopardi ai Canti ed è tale da rinnovare attraverso l’inizio tutta la poesia. Quella musica che il Leopardi giovane aveva cercato in questo idillio e che il correttore andava accentuando in tutte le correzioni, trova in questi versi rinnovati il suo centro di espansione. Nella prima lezione l’inizio era soprattutto rovinato da una mossa melodrammatica, dissonante:

Oimè, chiara è la notte e senza vento,

e queta in mezzo agli orti e in cima ai tetti

la luna si riposa, e le montagne

si discopron da lungi.

Poco dopo il Leopardi tolse il lamentoso «oimè» e vi sostituí il «dolce» che chiamava tutto un rinnovamento della frase cui il poeta giunse solo nel ’35. Allora intuí la fiacchezza di «la luna si riposa», quasi un tratto antropomorfico senza significato, e di «e le montagne si discopron da lungi», molle descrizione senza rilievo. Fece centro di tutta la frase la luna che diventò anche il soggetto dell’ultimo verso. Tutto ha acquistato nella nuova lezione un altro rilievo ben degno della potente serenità del primo verso: è una descrizione che non dipende piú affatto dalla similitudine di Omero, in principio imitata. Quella quiete sublunare domina poi, contrariamente a quello che avveniva prima con la descrizione fiacca e distesa, tutto il resto dell’idillio e da quella serenità deriva il tono, la musica che si contrappongono e si impongono al motivo piú elegiaco e doloroso. Solo nei grandi idilli e forse neppure in essi con tanta intensità, il Leopardi aveva raggiunto una tale perfezione di chiarezza idillica.

Spesso si contrappone questo inizio purissimo a quello dei nuovi canti non ricordando che sono proprio dello stesso periodo: il fatto che il Leopardi abbia potuto nel suo nuovo periodo dare una tale espressione idillica, dimostra la sua immensa larghezza e la sua continuata, invigorita potenza fantastica, musicale.

Il Sogno. Mentre nella Sera del dí di festa il Leopardi aveva riveduto tutta la poesia rifacendosi alla ispirazione prima e sviluppandola nel senso piú fecondo, nel Sogno la concezione era troppo fiacca, povera perché il Leopardi ci si potesse rimettere dentro a riviverla e migliorarla. Cercò solo di eliminare le stonature piú urtanti, lasciando intatta quella costruzione torbida, esitante fra la lirica e il dialogo. Lo stesso avviene nella Vita solitaria verso la quale il poeta dovette trovarsi in condizioni analoghe per il Sogno: poesia fiacca, diluita, in cui le scenette classiciste hanno lo stesso valore ritardante dei dialoghi nel Sogno. Anche qui, come nel Sogno, vi sono dei miglioramenti particolari: al 12-15 un orribile

[...] dove si piglia

lo sventurato a scherno [...]

è sostituito da

[...] là dove segue

odio al dolor compagno: [...]

e al 15 un «concede» troppo feudale è mutato in un piú ampio «dimostra». Ma non v’è insomma una linea unica e le correzioni sono poco impegnate, di rammendo.

Ad Angelo Mai. Per quanto nell’Ad Angelo Mai ci sia troppa costruzione e poca organicità, cosí che di fronte ad idilli compatti come l’Infinito rappresenta un passo indietro nello sviluppo della lirica leopardiana, pure c’è in questa canzone un motivo romanticissimo di vaghezza, di nostalgia che alleggerisce il pessimismo storico e provoca ad es. la affettiva rievocazione del mondo ariostesco. A questo motivo poetico dové riattaccarsi il Leopardi nel ’35 per fare le correzioni all’Ad Angelo Mai: molte di queste sono soprattutto di chiarificazione di passi rimasti piú inelaborati, ma le piú notevoli sono fatte appunto per allargare il motivo romantico, la linea piú musicale.

Basti portare come esempio i vv. 15-16 che erano:

[...] O con l’umano

valor combatte il duro fato invano?

Che diventeranno:

[...] O con l’umano

valor forse contrasta il fato invano?

Eliminando l’inutile ed abusato «duro» e aggiungendo un «forse» che trasforma la opaca interrogazione in una espressione di nostalgica incertezza. Lo stesso tono fu dato ai vv. 33-34 che dicevano dei gloriosi avi italiani:

[...] A voi certo il futuro

ignoranza non copre: io son distrutto

ed annullato dal dolor, che scuro

m’è l’avvenire, [...]

E che furono corretti in:

[...] A voi forse il futuro

conoscer non si toglie. io son distrutto

né schermo alcuno ho dal dolor, che scuro

m’è l’avvenire, [...]

E al verso 91 un «Nostri sogni leggiadri» dà un senso piú suggestivo e sognante che non c’era nel primitivo: «Nostri beati sogni». Sembra insomma che il Leopardi cercasse in queste canzoni meno compatte, il motivo piú degno di sviluppo, il motivo piú musicale, meno culturale.

Canzoni culturali. Si può ripetere per le canzoni storico-culturali quello che si è detto per la canzone Ad Angelo Mai: che il poeta non poteva riprenderle interamente, mancando esse di un’intima organicità, e che si contentava di ravvivare i punti piú morti e di svolgere, per quanto era possibile, il motivo che si trovava piú capace di sviluppo. Ad ogni modo, anche se non s’impegna unitariamente come nella Sera del dí di festa: ciò che corregge si alleggerisce, diventa spesso da prosa poesia.

Nelle due prime canzoni che si possono riunire in coppia: Nelle nozze della sorella Paolina e Per un vincitore nel pallone agisce piú che altro da critico, poiché i due canti non gli offrivano nessun appiglio di svolgimento, rinforzando in ambedue certe espressioni che stonavano con il voluto carattere eroico nella prima al v. 50: «non si rallegra il cor» invece del piú scintillante, ma piú fiacco: «non brilla, amando, il cor», al v. 65 «la vergognosa età condanni e sprezzi» che è tanto piú energico di: «il vergognoso tempo aborra e sprezzi». E nella seconda: ai vv. 14-15

Del barbarico sangue in Maratona

non colorò la destra

[...]

per

Non del barbaro sangue in Maratona

sparse l’invitta destra

[...]

dove «invitta» non diceva nulla e «sparse» era assai piú classicheggiante e meno efficace di «colorò».

Molte altre correzioni delle due canzoni indicano questa volontà di maggiore decisione, sulla stessa linea di queste citate.

Anche nel Bruto minore e nella Primavera (in cui un «romito nido dei venti» ai 27-28, al posto di «stanza dei venti» si inserisce bene nel carattere un po’ arcadico, un po’ pastorale della canzone) le correzioni sono buone, ma non interessano intimamente lo spirito di tutto il componimento. Nell’Inno ai patriarchi, che è forse la poesia piú tormentata nelle edizioni precedenti, le correzioni del ’35 portano al solito maggiore precisione ed una molto maggiore larghezza musicale (al v. 70 «a novi liti e nove stelle», invece di «a novi liti e novo cielo»). Ma dove l’attenzione del poeta si è piú fermata, è nell’Ultimo canto di Saffo che delle canzoni culturali è certo la piú ricca di ispirazione, quella che aveva maggiori possibilità di superare i legami della cultura e della costruzione storica.

Il motivo che piú spiccava nella prima concezione del canto era quello del contrasto fra la sorte disgraziata di Saffo e la bellezza delle cose che la circondano. Il poeta maturo si afferrò a questo motivo e stese le principali correzioni per accentuarlo: ciò che Saffo non ha o non ha piú, assume un valore piú concreto. Cosí al v. 19 invece di «vago il tuo manto, o divo, cielo e vaga [...]» si mettono due «bello, bella» molto piú forti ed assoluti; e al verso 4, al posto di «oh disiate», detto di «sembianze», subentrò un piú oggettivo «dilettose»: quelle sembianze non vivevano solo in quanto erano desiderate, ma avevano agli occhi di Saffo un loro valore intrinseco. Anche nelle altre correzioni, a parte quelle piú particolari che pure si possono ricondurre latamente alla stessa linea di revisione, il poeta dimostra di volere accentuare il motivo della esclusa, della nobile anima sofferente di fronte alla bella, ma impassibile natura. Nei vv. 40-43 si era giunti, attraverso i miglioramenti dell’edizione precedente a questa frase:

Qual ne la prima età (mentre di colpa

vivano ignari) onde inesperto e scemo

di giovanezza e sconsolato al fuso

della rigida parca si devolva

mio ferrugineo dí?

In cui l’intonazione era prevalentemente retorica, senza vigoroso rilievo: la parentesi restava troppo parentesi prosastica e tutti gli aggettivi erano sfocati, di cultura. Il poeta, rivedendo la poesia, sentí che quella interrogazione, come centro sentimentale di tutto il lamento di Saffo, doveva essere maggiormente rilevata e staccata nettamente dalle interrogazioni precedenti cui il «qual» iniziale asserviva completamente. Nacque perciò una cosa nuova, slanciata e decisa:

In che peccai bambina, allor che ignara

di misfatto è la vita, onde poi scemo

di giovanezza, e disfiorato, al fuso

dell’indomita parca si volvesse

il ferrigno mio stame? [...]

La parola «bambina» accanto a «peccai» (quasi un’ipotesi assurda) accentua il carattere doloroso della domanda al fato; la parentesi diventa una di quelle bellissime parentesi musicali proprie del nuovo Leopardi; gli aggettivi sono piú vigorosi: «ferrigno» invece dell’orribile, cadente «ferrugineo», «indomita» invece di «rigida» quasi a vivificare a tragicizzare anche la morte, «disfiorato» invece di «sconsolato» in coerenza al nuovo «stame» che sostituí il piú generico «dí». Perfino il cambiamento dei tempi («si devolva» in «si volvesse») indica tutto uno sguardo piú approfondito e desolato sulla vita dolorosa di Saffo: il «ferrigno stame» vi è svolto fin dalla fanciullezza, tutta la vita di Saffo dalla fanciullezza è vista come una sciagura voluta dal fato. Anche nei vv. 62-65, che erano:

[...] Me non asperse

del soave licor l’avara ampolla

di Giove indi che il sogno e i lieti inganni

perir di fanciullezza.

e che divennero:

[...] Me non asperse

del soave licor del doglio avaro

Giove poi che perír gl’inganni e il sogno

della mia fanciullezza. [...]

il balzare di Giove a soggetto intensifica il contrasto fra Saffo e le forze avverse che la condannavano alla infelicità, ed il tono di tutta la frase è piú ampiamente amaro, piú musicalmente nostalgico.

Quanto alla canzone Alla sua donna il poeta dové trovarla definitiva nella sua lievissima linea e non vi fece che una correzione al secondo verso: «m’inspiri» invece di «m’insegni» che era tanto meno affettivo e lontano dal nobile platonismo di tutto il canto.

Nei Grandi idilli, editi appena quattro anni prima dell’edizione napoletana, e sorti in un momento di felicissima ispirazione, il poeta correttore non aveva certo molto da fare: aveva dinnanzi a sé delle espressioni realizzate quasi alla perfezione, versi armonizzati come pochissime volte è avvenuto nella nostra poesia. Non si trovava dunque di fronte ad un tipo di componimento come La sera del dí di festa, ancora inorganico e pure portante in sé le possibilità, di un ulteriore sviluppo, quasi gli addentellati per una ricostruzione, né di fronte a poesie mediocri come il Sogno dove non si poteva lavorare che ad un accomodamento ad un emendamento. Qui si trovava di fronte a poesie compiute, espresse nella sua maturità artistica e in un momento di eccezionale favore. Tanto è vero che l’edizione fiorentina del ’31 non portò quasi nulla di nuovo: solo nel ’35 il Leopardi trovò qualche punto da rendere piú armonico e musicale. Non poteva sconvolger con correzioni fondamentali gli idilli ai quali tornava con un animo tutto nuovo e cui doveva guardare cautamente come ad un se stesso assai diverso dal se stesso dei nuovi canti. Il nuovo Leopardi poteva introdurre parzialmente voci del proprio mondo in poesie non perfettamente realizzate, ma sarebbe stato un vero segno di decadenza artistica se avesse voluto correggere gli idilli in base alle sue nuove tendenze estetiche ed introdurre in quelle creazioni levigate, armoniche una forma vigorosa, energica. Ciò mostra come il Leopardi non si fosse affatto chiuso la comprensione del suo passato artistico e come potesse rimettersi nella posizione idilliaca per apportare, fin dove era possibile, qualche maggiore tono di musica e di armonia dove tutto tendeva appunto all’armonico, al concluso. Le correzioni del ’35 ai grandi idilli sono perciò poche, ma aumentano notevolmente la musica propria dell’idillio e mostrano soprattutto l’estrema finezza dell’ultimo Leopardi.

Nel Risorgimento che non è ancora in perfetta atmosfera idillica, ci sono due correzioni che servono a rendere piú fluida, ma anche piú salda la facilità propria del canto. La strofetta 113-116 diceva:

Non l’estirpar, non vinsela

il fato e la sventura,

non la domò la dura

tua forza, o verità.

e fu cambiata in:

Non l’annullar: non vinsela

il fato e la sventura;

non con la vista impura

l’infausta verità.

Era anzitutto troppo brutale dire «non l’estirpar» di quella ingenita virtú per la quale sopra aveva adoperato parole blande («Sospiro in me gli affanni / L’ingenita virtú») che richiamavano piuttosto un verbo di azione uniforme, totale, e nei due ultimi versi l’invocazione improvvisa alla verità stonava con tutto il complesso facile e scorrevole.

La strofa 121-123 diceva:

Del nostro ben sollecita

non fu: de l’esser solo:

fuor che serbarci al duolo

or d’altro a lei non cal.

Il poeta sentí il vuoto fra «non fu» e «de l’esser solo» e l’inefficacia delle due mosse: «del nostro ben [...] fuor che [...]» e corresse in:

Che non del ben sollecita

fu, ma dell’esser solo:

purché ci serbi al duolo

or d’altro a lei non cal.

A Silvia presenta subito all’inizio un cambiamento notevolissimo: un «sovvienti» in «rimembri» che è il verbo di ricordanza piú adottato degli idilli e che il nuovo Leopardi introduce perciò in questo punto e al verso 57 delle Ricordanze. È buono pure il cambiamento di due «anco» ai 49-51 in «anche» meno arcaici e piú leggeri.

Ma la migliore correzione è senza dubbio quella del verso 41 di: «consumata» in «combattuta» (Da chiuso morbo combattuta e vinta). Il «consumata» stonava con l’assolutezza di «vinta» e dava l’impressione piú banale, piú realistica della malattia specifica, del mal sottile di cui Silvia era morta. Il «combattuta» invece prepara «vinta» ed indica la lotta impari fra il chiuso morbo, quasi personificato, e la giovane. Certamente questa parola è assai propria del nuovo Leopardi, ma qui non stona ed anzi prepara solidamente il moto seguente di affettiva tenerezza.

Anche nelle Ricordanze le correzioni sono poche, ma finissime: c’è anzitutto una sostituzione di plurale a singolare nel v. 11 («della sera io solea passar gran parte», diventato: «delle sere») che slarga quell’atmosfera di vaghezza e di vasta intimità e rende piú generale, piú distaccata dalla realtà l’abitudine pensosa del giovinetto solitario. Ed alla musica minutamente mal controllabile della poesia si intonano le altre correzioni ai vv. 95-96 che erano:

E quando pur questa invocata morte

sarammi accanto e fia venuto il fine [...]

la correzione in «allato e sarà giunto il fine» smorza l’inutile asprezza di «accanto» ed allunga il moto troppo scattato di «e fia venuto» in quello piú equilibrato di «e sarà giunto». Cosí pure al 142 un semplice «ed onde» invece di «e dove» («ed onde / mesta riluce delle stelle il raggio»), rende, ricongiungendosi all’onde iniziale («ond’eri usata favellarmi»), il verso molto piú pieno e colorisce tutta la scena con l’accenno del rifrangersi dei raggi delle stelle sui vetri delle finestre di Nerina.

Al 120 poi una sostituzione di due parole («Chi rimembrar vi può senza sospiro o primo entrar di giovinezza» invece di «o primo tempo giovanile») rassicura tutta la strofa con una scioltezza che sembra accompagnare l’ingresso gioioso del giovane nella vita. Mentre prima l’espressione era opaca, statica, determinazione di una età della vita, adesso è un’espressione mossa, un’azione, quasi una sensazione vivace, primaverile.

Nel Canto notturno oltre la buona sostituzione nel titolo di «errante» al piú lezioso «vagante» c’è da notare un magnifico «mai» al posto di un «pur» poeticamente inutile.

Quel «pur» voleva solo dire logicamente «inoltre» e restava opaco, prosastico, mentre il «mai» allarga la prospettiva dolorosa, fatale della riflessione del pastore e con le due vocali a dittongo avvalla deliziosamente il suono di questo verso conclusivo, nostalgico. Al verso 85 riduce due versi brutti:

questi pensieri in mente

vo rivolgendo assai gran tempo e dico.

nel bellissimo: «dico fra me pensando». Sembra che tutta la frase precedente tendesse alla conclusione delicatissima di questo verso che potrebbe prendersi quasi come tipico della musica idillica. È notevolissima per il tempo in cui fu fatta (l’epoca dei Paralipomeni), la correzione della Quiete dopo la tempesta al v. 51: «Prole cara agli eterni» invece di: «Prole degna di pianto». Il tono generale della strofa, che aveva una tendenza chiara all’amarezza tristemente sorridente, di rassegnata accusa al fato («assai felice se respirar si lice») era urtato dal secco e, del resto, banale: «Prole degna di pianto».

Nel Sabato del villaggio ci si offre una bellissima correzione che può degnamente chiudere questa serie di osservazioni sul gusto dell’ultimo Leopardi. Al verso 19 la prima lezione diceva: «a la luce del vespro e della luna».

L’edizione napoletana fece: «al biancheggiar della recente luna». Prima era una osservazione frammentaria, indecisa, spezzettata di fronte alla musica dei versi precedenti:

Già tutta l’aria imbruna,

torna azzurro il sereno, e tornan l’ombre

giú da’ colli e da’ tetti.

Il nuovo verso riprese la musica di quei versi armonici e la riassommò conclusivamente in una espressione assoluta di luminosità senza incertezze.